Francesco Greco non rappresenta né evoca: crea. È uno scultore cromatico, un esteta della materia; non esalta solo quella che usa per i volumi, intende anche il pigmento come materia. Le coordinate del suo creare spaziano lungo le fratture e nelle profondità di impasti vivacemente colorati la cui forma, però, è sobria e semplice, rigidamente geometrica.
Greco non nasce, in senso stretto, come Artista. Il padre, lavorava nelle finiture di interni: un stuccatore di talento che aveva un particolare pregio di artigianale maestria nel rigore dell’esecuzione e nella politezza delle forme. Francesco, oltre il fascino delle malte, del gesso e degli intonaci vissuti nel laboratorio del padre, affina il proprio rapporto con la materia applicandosi alle resine e ai metalli dell’odontotecnica, preziosamente cesellati.
È un percorso di raffinamento che passa per stadi successivi: dalla materia come necessità - l’intonaco, la malta - al piacere di catturare la luce - la modanatura, il gesso decorativo - fino alla sostituzione del reale: il polimero che si fa smalto e corona, che da polvere diventa sorriso. Vi è poi una scintilla d’arte che ha incendiato l’animo di Francesco Greco svelandogli la potenza del linguaggio non verbale, è il lascito di un catastrofico terremoto: il Cretto di Burri.
Gibellina vecchia, cancellata dalla natura e dall’irruenza del sisma ma rievocata, resa - grazie all’Arte - ancora una volta tangibile e percorribile nei suoi crocicchi morti, nella sua urbanistica a scacchiera, svela a Francesco Greco un altro aspetto della materia: la capacità di essere memoria. Inoltre lo lega alle proprie radici: lui, che vive tra Svizzera e Sicilia, è nato a Gela, dove la grande isola - abbacinante e candida - lentamente emerge dalle azzurre acque del mare. I suoi ritorni da Lugano adesso si protendono nella trasparenza del Mediterraneo grazie ad un borgo arroccato sulle sue scogliere: Castellammare del Golfo.
L’esigenza d’identificarsi con il mare è un bisogno che va oltre la semplice allegoria; l’Artista definisce mosso o calmo il proprio stato d’animo come se a guardarlo fosse un navigatore. È il colore blu, invece, che lo rapisce e lo tormenta. Un colore ambivalente, freddo e metallico come il mare d’inverno o caldo e carezzevole, ancorché tenebroso, come lo sguardo sugli abissi.
Francesco Greco dipinge per sé stesso, non inventa un linguaggio narrativo, non vuole diventare caposcuola: è un viandante solitario delle profondità marine. Effettivamente lui nuota, si immerge, resta sospeso - galleggiando - sul brivido della voragine, vola senza cadere. Forse, in cuor suo, vorrebbe vincere la controspinta dell’acqua e lasciarsi risucchiare da quel blu infinito, che nasconde gole, pianure e antichi crepacci modellati dalle correnti.
Affascinato dalla potenza di ciò che gli si apre davanti, consapevole di non essere né pesce né sasso, cerca di raggiungere il proprio limite fisico verso l’abisso per poi salire, svuotato di ogni forza, esausto dalla lotta imponderabile per aggrapparsi alla magia delle profondità, portando con sé l’immagine mentale di un percorso solo intravisto senza poterlo ghermire. È il ricordo dell’oltre, di un mondo assolutamente fuori dalla portata biologica dell’uomo e dell’artista. Esiste un fascino che spinge ogni scalatore, ogni apneista, ogni rocciatore a identificarsi con l’oggetto - anzi con il soggetto - del proprio amore. D’altronde esiste la consapevolezza che questa passione non ha equilibrio ed è un risucchio annientatore in cui liberarsi perdendosi. L’Arte di Francesco Greco riflette questo limite razionale, quando la mente riesce a dominare il fascino quasi irresistibile del grande balzo, visceralmente agognato ma trattenuto da un sano desiderio di vita.
Leggiamo, dalle parole dell’Artista, il racconto di questa passione: “Sono rimasto affascinato dalla materia non solo nel senso tecnico del termine, perché la materia - come la malta, l’intonaco, il gesso - stimola contemporaneamente sia il tatto che la percezione visiva; è materia disponibile ad essere lavorata, plasmata con manualità; ed è materia anche il colore, quello del mare di Sicilia che da sempre mi appartiene e che sento dentro come un universo senza confini, nascosto a tutti ma per me sempre aperto, luogo di pace e smarrimento del mio sguardo interiore. Non è il bianco abbacinante con cui il maestro Burri eternò la memoria di un’intera collettività cancellata da un evento di inimmaginabile potenza. Per me è il blue che da sempre indago nelle sue infinite sfumature, senza usarlo per un racconto ma come un riparo che rivolgo sempre e solo a me stesso. Ogni volta mi tuffo - scrive ancora Francesco Greco -immergendomi nell’ennesima ricerca tra razionalità e impeto, per conoscere e placare un sentimento che potrei definire come l’onda d’urto del mare in tempesta, uno tsunami, un urlo d’acqua, un maremoto che mi avvolge e trascina negli abissi lasciandomi la possibilità di cibarmi di una bolla d’ossigeno, vitale e senza peso, per poi sprofondare ancora in questo buio inquietante da cui traggo l’ispirazione.”
Massimiliano Reggiani